Quando alla fine degli anni 70 esplose in tutta Europa il virus Nottingham Forest: dove si parla di Robin Hood e Einstein, di Garibaldi e Brian Clough
Non tutti conoscono la mitica storia del club della foresta di Sherwood; e chi la conosce forse ignora alcuni retroscena che rendono la sua leggenda ancor più epica. Qui il mio pezzo uscito sul Fatto
Da qualche anno, nei mesi di vacanza, il Fatto Quotidiano propone ai lettori la rubrica “E la chiamano estate”: nelle ultime pagine del giornale offre ogni giorno pezzi pensati e scritti per chi abbia il gusto (e il tempo, che in vacanza non manca) della lettura tout court. Pezzi scritti in punta di penna, che divori senza nemmeno accorgerti, leggeri eppure sostanziosi. Dopo aver letto i quali ti senti più ricco. Ti senti meglio.
Ieri a gentile richiesta della redazione ho risposto anch’io presente: e ho spedito la “cartolina d’autore” mettendo il francobollo nientemeno che dalla Contea di Nottingham, quella della foresta di Sherwood e di Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri. Una leggenda, quella del ladro gentiluomo, che si lega però curiosamente e incessantemente a storie vere: a cominciare da quella del club di calcio del luogo, il Nottingham Forest, che dopo 110 anni di grigiore assoluto, grazie al genio del suo allenatore Brian Clough divenne di colpo, negli anni 70 del suo secondo secolo di vita, una leggenda tuttora insuperata per la particolarità, l’unicità e l’epicità delle gesta compiute; che non potevano non essere speciali visto che a Nottingham la storia del pallone s’intreccia, e non tutti lo sanno, con quella di Albert Einstein e Giuseppe Garibaldi, di Isaac Newton e D.H. Lawrence. Direte: Ziliani ha bevuto. E invece no: le cose stanno davvero così.
Se avete cinque minuti da buttare; se amate il calcio e anche se non amate il calcio; ma soprattutto se amate le storie minimali, quelle della vita di tutti i giorni, che da anonime diventano eroiche e leggendarie, allora sono sicuro che il mio articolo vi piacerà.
Aggiungo solo una nota personale, per spiegare il perchè di questa mia bizzarra scelta. Negli anni di cui parlo, la seconda metà degli Anni 70, dopo essermi laureato in Psicologia all’Università di Padova a 23 anni avevo iniziato a lavorare (perchè allora il mondo era diverso: si apriva ai giovani e io ebbi addirittura la possibilità di decidere quale lavoro scegliere tra tre lavori bellissimi, lo psicologo, il pubblicitario e il giornalista) prima come abusivo - allora si diceva così - e poi come praticante al Guerin Sportivo, settimanale sportivo che aveva sede a San Lazzaro di Savena, poco fuori Bologna.
Il Guerino, diretto da Italo Cucci, era allora un settimanale diffusissimo, vendutissimo e realizzato a regola d’arte; ed era considerato una vera e propria bibbia in particolare per le pagine (“Calciomondo”) che dedicava al calcio internazionale. Avevamo corrispondenti in ogni paese d’Europa e in ogni continente del mondo e poichè a quei tempi il calcio in tv era merce rara, e vedere le partite degli altri campionati era un’impresa pressoché impossibile (si rubava qualcosa solo su tele Capodistria o sulla tv svizzera, che non sempre si prendeva), gli occhi degli appassionati diventavano quelli del Guerino: che dava un’informazione, anche fotografica, completa e di altissimo livello e permetteva ai lettori di sapere tutto quel che c’era da sapere sul campionato olandese e sul campionato messicano, sul campionato francese e sul campionato colombiano.
I titolari della rubrica di calcio internazionale del Guerin Sportivo erano due: l’anziano Stefano Germano, un giornalista vecchio stampo che sarebbe stato perfetto come caratterista tra Lemmon e Matthau in “Prima Pagina” di Billy Wilder (che tra l’altro uscì proprio in quegli anni, nel 1974), e il giovane Luciano Pedrelli, che era quello che si faceva il mazzo, di cui per questioni d’età divenni buon amico e al quale mi lega un episodio drammatico e cruciale della mia vita di cui lui fu per una parte diretto protagonista e per un’altra indiretto testimone (ma questa è un’altra storia); e che fu il primo giornalista in redazione, e forse il primo fan di calcio in Italia, a finire preda del terribile virus-Nottingham Forest che si abbattè sulla folla degli appassionati di calcio senza preavviso, con il fragore di un fulmine, appunto a metà anni ‘70; il virus di un semi-sconosciuto club di calcio inglese che un giorno, di colpo, senza alcun preavviso (l’anno prima giocava in Seconda Divisione) cominciò a vincere senza che nessuno capisse perchè e per qualche anno non smise più di farlo, e finì col colpire e contagiare tutti.
E anche se da allora è passato quasi mezzo secolo (sigh), di una cosa sono assolutamente certo avendo ancora negli occhi le sfrenate esultanze di Luciano all’arrivo dei risultati e la sua estasi nel passare (in gergo giornalistico: leggere, correggere, titolare e mettere in pagina) i pezzi inviati via fax o via telefax dal corrispondente inglese: il paziente zero del virus-Nottingham Forest in Italia fu lui, Luciano Pedrelli, malato grave conclamato, pazzo di Gemmil e di Robertson, di Shilton e di Woodcock ma contento di essere stato contagiato e contento di vedere che il contagio si diffondeva alla velocità della luce di collega in collega in redazione, e poi in produzione, e poi persino in amministrazione.
Ehm, ho l’impressione di essermi fatto prendere la mano. È l’età. Chiedo scusa. E se vi va, buona lettura.
P.S. Scusandomi con chi dimentico (spero pochi, anzi spero nessuno), vorrei ricordare i nomi dei colleghi che trovai alla fine degli anni 70 al Guerino, la prima squadra della mia carriera di giornalista e che mi sento di ringraziare per la simpatia e l’affetto del tutto spontanei con cui venni accolto. Anche se alcuni non ci sono più, li cito in ordine sparso: il direttore Italo Cucci, Stefano Germano, Claudio Sabatini, Filippo Grassia, Roberto Guglielmi, Luciano Pedrelli, Darwin Pastorin (con cui divisi l’appartamento a Villanova di Castenaso), Marco Montanari, Stefano Tura (che mi ospitò a casa sua quando Darwin ed io venimmo sfrattati), Daniele Pratesi, Simonetta Martellini, Nando Aruffo, Patrizio Zenobi, Serena Zambon, i giornalisti di musica Lorenza Giuliani (anche bravissima fotografa) e Gianni Gherardi, il fotografo Guido Zucchi col fido aiutante Diamanti detto Il Rosso, i grafici Bugamelli, Castellani e Pandolfi, Nicolina al centralino, il factotum Grigoletto, il ristoratore Romano Romagnoli della trattoria La Mura di San Lazzaro che sapendomi abusivo, finché non venni assunto mi fece pagare conti talmente minimi che nemmeno alla buvette di Montecitorio.
Gran bella storia sia calcistica che personale.
Peccato che nn avvengano più spesso.
nel calcio inglese (non perfetto) esistono regole che vengono fatte rispettare, nonostante ci siano club miliardari esistono presupposti sportivi per cui anche i piccoli club possano vincere lo scudetto o coppe nazionali, vedi Leicester, da noi in Italia l'ultima piazza calcistica "minore" che vinse uno scudetto fu Verona nel 1985, quello della Samp 1991 non fa testo in quanto il proprietario della società era miliardario del petrolio, ciò fa capire che in serie A se non hai disponibili centinaia di milioni di € non vincerai mai nulla anche avendo una squadra che ha un gioco superiore alle concorrenti, vedi Bologna 2024, e chi vuol capire capisca.
Altro argomento da considerare non di seconda importanza è il mondo delle scommesse che in UK è un business che vale miliardi di sterline, per far si che sia credibile dev'essere credibile il mondo dello sport nello specifico il calcio, al contrario da noi alcuni giocatori scommettevano sulle proprie partite, talmente bravi e onesti che sono stati puniti con due buffetti e messi in castigo da papà e mamma.