Quando Bartali giornalista chiedeva un favore in sala-stampa e veniva rimbalzato e mandato al diavolo da tutti
Dopo aver guidato la sua auto nella carovana pubblicitaria, Gino indossava i panni del giornalista per Avvenire: scriveva l'articolo a mano su un quaderno e poi si guardava attorno in cerca d'aiuto...
Mia mamma Giovanna mise al mondo cinque figli. Tutti maschi. E per ognuno di noi fece un album d’infanzia, quelli di una volta con gli angioletti disegnati in ogni pagina, con le annotazioni sul peso, la ciocca di capelli conservata in una bustina, le prime foto, il primo dentino, annotazioni, ricordi. Io fui il terzo dei cinque e nel mio album, che ancora conservo, tra le cose più curiose spiccano due telegrammi. Il primo arrivò da uno zio di Milano, Camillo Gamba, che faceva il professore universitario a Bari e scriveva: “Lo avete chiamato Paolo e San Paolo è il santo protettore dei giornalisti: spero diventi un bravo giornalista”. Il secondo, un telegramma di felicitazioni ai miei genitori, portava la firma di Gino Bartali. Che durante la Resistenza aveva conosciuto mio padre, Felice Fortunato, che faceva parte dei partigiani cristiani che combatterono sulle colline dell’Appennino piacentino col soprannome di Griso. Anche Bartali era un partigiano cristiano. A guerra conclusa, mio padre e alcuni amici lo invitarono due volte a Monticelli d’Ongina, un paese sul Po in provincia di Piacenza che accolse Gino con tutti gli onori del caso. Monticelli d’Ongina è il paese dove i miei genitori abitavano e dove io sono cresciuto. Quando tutto questo accadeva, però, io non ero ancora nato. Anzi, non erano nati nemmeno Gigi e Carlo, i miei due fratelli più grandi.
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