Vita da giornalista: quando alla Milano-Sanremo 1983 venni "processato" per aver dissacrato la figura dell'inviato speciale (parte II)
Le situazioni da commedia all'italiana vissute da inviato di calcio e di ciclismo sono state un'infinità: comincio oggi a raccontarne una vissuta al "Giorno" una quarantina di anni fa (bei tempi!)
(segue)
Tornando a noi, il caposervizio dello sport Saverio Sardone indice subito una riunione-lampo in cui comunica alla redazione, senza tanti giri di parole, che la rubrica ciclismo è stata assegnata dal direttore Zucconi a Paolo Ziliani. Io cado dalle nuvole e naturalmente sono ai sette cieli, specie per l’enorme stima nei miei confronti che intravedo dietro questa scelta a sorpresa: nello stesso tempo sono dispiaciuto e addolorato per Beppe, che ha ricevuto una vera e propria coltellata al cuore. Per fortuna, Beppe che in redazione convive con me gomito a gomito sa che tutto è passato sopra le nostre teste senza che nulla sapessimo. Parliamo della cosa. Guardandoci negli occhi. Vedo che non c’è nessun’ombra tra di noi. E non ci sarà mai.
Come tutti sanno, il carrozzone del ciclismo si rimette in moto a febbraio-marzo: e arriva così per me il giorno del gran debutto. Io, che non ho mai preso la patente e detesto macchine e motori, dopo aver preso atto che d’ora in avanti trascorrerò molti mesi dell’anno in automobile al seguito del ciclismo, a bordo dell’auto del “Giorno” e con tanto di autista mi presento a Santa Marinella (Roma) il 10 marzo 1983 per la punzonatura della Tirreno Adriatico, la breve corsa a tappe di sei giorni che precede tradizionalmente la Milano-Sanremo in calendario il 19 marzo. Anche se il ciclismo mi piace e l’ho seguito in tivù fin da bambino impazzendo per il Processo alla tappa di Sergio Zavoli, come giornalista inviato sono un profano.
Ma sono animato dalle migliori intenzioni di raccontarlo al meglio ai lettori: ed è quindi con un senso di forte disillusione che prendo atto fin dal primo giorno che un inviato di ciclismo tutto può fare, seguendo una corsa, tranne che seguire (nel senso di vedere) la corsa. Puoi stare 1 km davanti o 1 km dietro: tertium non datur. Così ogni mattina, ai raduni di partenza di Santa Severa, Orte, Grottamare, Paglieta e via dicendo, la scena che si ripete davanti ai miei occhi è la solita: Guida Michelin e Guida dell’Espresso alla mano, i giornalisti fanno capannello, individuano il ristorante più indicato fra i tanti disseminati lungo il percorso - il migliore per rapporto qualità-cibo e vicinanza alla sede d’arrivo della tappa - e non appena i corridori danno la prima pedalata, schizzano in macchina e si fiondano in direzione del ristorante prescelto. Dove con tutto il tempo di questo mondo hanno modo di consumare un lauto pasto seguito da caffè e ricevuta fiscale (l’opzione maggiorazione del conto è a scelta), dopodiché, a passo un po’ appesantito, gli inviati risalgono in macchina e raggiungono la sala-stampa posta di solito in una scuola o in una palestra a 100 o 200 metri dal traguardo, dove in tv, ogni tanto appisolandosi, ascoltano Adriano De Zan raccontare le fasi finali della tappa e Giorgio Martino intervistare i corridori nel dopo corsa. Ci sono inviati, specie fra i decani, che non fanno un passo fuori dalla sala-stampa neanche a spingerli e che non incrociano mai un corridore per porgli una domanda. Questo è.
A me tutto questo pare buffo: una vera e propria pièce da commedia all’italiana. E così un giorno decido di scrivere un articolo in cui racconto che alla Tirreno Adriatico non c’è solo una squadra composta da velocisti chiamata “Amici della pista” (quella di Dazzan, appunto), ma ce n’é un’altra che nessuno conosce chiamata “Amici della pasta”: ed è la squadra degli inviati speciali, a loro volta velocisti nel senso che al pronti-via di ogni tappa vanno in fuga alla volta di un ristorante ogni giorno diverso arrivando a volte a gruppo compatto, a volte sgranati ma con distacchi minimi. Dopodiché passo al racconto più particolareggiato della giornata-tipo dell’inviato di ciclismo made in Italy (anche se poi constaterò che succede così ovunque). Un articolo leggero, ironico ma totalmente vero. Che il “Giorno” riceve e pubblica.
Arriva poi il giorno della Milano-Sanremo. Dove la folla degli inviati è sterminata (altro che Tirreno Adriatico: hanno ottenuto accrediti giornali e tv di ogni Paese, francesi, belgi, olandesi, spagnoli, inglesi, americani e via dicendo) per cui tutti si diventa per forza di cose cani sciolti. Io mi presento al via a bordo dell’auto del “Giorno” e a una certa ora, taccuino e macchina da scrivere alla mano, poso il mio primo piede nella sala-stampa di Sanremo dove desidero prendere posizione in un banchetto il più appartato possibile (amo scrivere lontano dalla bolgia). Mi trovo però davanti due anziani colleghi che hanno tutta l’aria di avermi aspettato: Fulvio Astori del Corriere della Sera e Gino Sala dell’Unità.
Astori e Sala (nella foto) sono due veri e propri veterani delle corse di ciclismo che seguono da mezzo secolo, o giù di lì: mi salutano e mi invitano a seguirli in uno stanzino attiguo all’open space. Giunto nel quale, macchina da scrivere ancora in mano, senza molti preamboli vengo sottoposto a un breve, duro, rigoroso processo. In ballo c’è la deontologia professionale. Mi viene chiesto conto di quanto scritto nel mio articolo sugli “Amici della pasta” e rispondo che sì, ho raccontato la giornata tipo dell’inviato di ciclismo perchè mi sembrava un tema interessante e divertente per i lettori; che li invitavo a dirmi una sola parola di quell’articolo che non corrispondesse al vero; e che tra gli “Amici della pasta” mi ci ero messo anch’io, non avevo tirato il sasso e ritratto la mano. Non avevo detto: io così non mi comporterò mai. Avevo semplicemente raccontato, in modo ironico e un po’ sfrontato, la verità che si nasconde dietro uno scenario sconosciuto ai più. Uno scenario che era sconosciuto anche a me, fino a dieci giorni prima.
Ci tengo a dire qui, ed è la verità, che Fulvio Astori e Gino Sala, che al termine della mia arringa difensiva mi notificarono verbalmente la diffida a proseguire nel mio comportamento che tanto disdoro aveva arrecato alla categoria, sono diventati poi col tempo due amabilissimi e affettuosi colleghi cui ho voluto bene e che mi hanno voluto bene; hanno visto che non facevo sconti a nessuno e hanno meglio messo a fuoco, rivalutandolo, il mio inusuale - per le abitudini del tempo - approccio al lavoro. E sono certo si siano anche divertiti, leggendomi, specie nel Giri d’Italia in cui mettevo nel mirino ora l’organizzazione tutela-brand della Gazzetta (succedeva già allora: ve lo racconterò), ora il marchettificio selvaggio delle interviste di De Zan e Martino, ora la piovra degli uomini-Rai che razziavano omaggi e cadeaux in ogni Pro Loco sede di tappa eccetera eccetera.
Questo fu il mio battesimo del fuoco da giovane inviato nel mondo del ciclismo. E poichè le cose bizzarre, divertenti e curiose che mi capitarono sono state tante, se la cosa non vi annoia ne racconterò alcune, per i miei abbonati, nei prossimi giorni. È estate, il tempo per leggere non manca: se non avete niente di meglio da fare, credo che un sorriso riuscirò a strapparvelo.
(1. fine seconda parte)
Grande!
azz... che ricordi e che miti del Giornalismo, G. Brera e i suoi pedatori di pallone, S. Zavoli con "La notte della repubblica", A. De Zan instancabile telecronista del Giro d'Italia ecc..., ecco perché sostengo che quelli della mia generazione appassionati di sport e non solo sono stati fortunatissimi per aver ascoltato o letto articoli di quei personaggi che hanno fatto la storia del giornalismo italiano, ed ecco ancora spiegato perché il sottoscritto fruitore di sport paragona i giornalisti di oggi simili a saltimbanchi in confronto a quella generazione di Uomini dotti e divulgatori di cultura sportiva e non solo.